L’irrogazione da parte del datore di lavoro di numerosi provvedimenti disciplinari, volti a colpire la dipendente nella sua dignità, minandone gravemente l’autorevolezza ed il prestigio, integra l’ipotesi di mobbing (Corte di Cassazione, Ordinanza 15 luglio 2022, n. 22381).
Il principio è stato stabilito dalla Suprema Corte con la sentenza di rigetto del ricorso proposto avverso la decisione della Corte d’Appello. Quest’ultima aveva accolto la domanda proposta da una lavoratrice nei confronti del Ministero dell’Istruzione e condannato lo stesso al risarcimento dei danni patiti dalla docente per effetto dell’illegittima condotta, integrante un’ ipotesi di mobbing, accertata con sentenza del TAR passata in giudicato ed emessa all’esito di vari giudizi proposti per l’annullamento di diversi provvedimenti adottati a suo carico.
La Corte territoriale, in particolare, a fondamento della sentenza, aveva valorizzato, ai fini dell’accoglimento della domanda della lavoratrice, la pronunzia del TAR che aveva accertato come la stessa fosse stata vittima di mobbing, sussistente la lamentata condotta persecutoria e l’intento vessatorio unificante tutti i comportamenti lesivi.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso il MIUR, lamentando l’omesso accertamento della pretesa risarcitoria avanzata dalla lavoratrice, in quanto i giudici del gravame avevano erroneamente riconosciuto efficacia di giudicato all’accertamento compiuto sul punto dal giudice amministrativo.
La Corte di Cassazione, di contro, respingendo la doglianza del Ministero, ha posto in evidenza che i giudici di merito non avevano ritenuto formato, con riferimento alla sentenza del TAR, il giudicato sostanziale o formale sul diritto della dipendente al risarcimento del danno da mobbing, bensì si erano limitati a recepire la ricostruzione operata dal giudice amministrativo circa il rapporto di lavoro indubbiamente conflittuale intercorso tra le parti.
Ne era, pertanto, disceso il convincimento della medesima Corte d’appello circa l’illiceità della condotta posta in essere dall’amministrazione, volta a colpire la lavoratrice nella sua dignità, minandone gravemente l’autorevolezza ed il prestigio, piuttosto che a comporre il conflitto insorto nell’ambiente di lavoro, e circa la sua riconducibilità ad un’ ipotesi di mobbing.
Sulla scorta di tanto, il Supremo Collegio, condividendo le conclusioni della sentenza impugnata, ha rigettato il ricorso, ritenuto sussistente il diritto al risarcimento del danno della lavoratrice in relazione al pregiudizio dalla stessa patito.